Bio

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Chiara Casorati

Ho circumnavigato la parola “arte” in molti modi senza mai entrarci direttamente, o meglio, ci sono nata dentro, quindi per prima cosa ho dovuto uscirne. 
Mi sono laureata in lettere, mi sono diplomata alla Scuola del Teatro Arsenale e ho fatto l’attrice.  
Incontro l’argilla a 17 anni, ero in quinta liceo e credevo fosse un materiale verde e liscio. Ho scoperto che è a volte rossa, a volte bianca, addirittura gialla, nera o marrone, ma non verde. Ed è morbida, se c’è la giusta quantità d’acqua, se no è dura e secca e si sbriciola. Mi innamoro. Mi identifico. Mi sembra di prendermi cura di me, tenendola fra le mani. 
Adoro guardare qualcuno che disegna, o dipinge, ma nel bianco della carta mi perdo. E’ tutto troppo possibile. L’argilla è presente, c’è, è un dialogo. 
E’ un dialogo che nel corso degli anni si è assottigliato. Prima dovevo proprio prendere in mano grossi pezzi, farne colombini, veder crescere vasi. Ora mi basta lasciare una piccola traccia sulla superficie ricettiva dell’argilla che già ci vedo un mondo, mi evoca un sentimento, è l’inizio di una storia. 
Insegno. Tengo dei laboratori di arte per bambini e adulti e insegno Hara Yoga sempre a bambini e adulti, dal 2012. 
La prima volta che sono entrata in una scuola materna ero l’assistente di un altro conduttore che mi disse: “prepara le colle” e mi indica dei vasetti vuoti dello yogurt. Ci verso la vinavil dentro, aggiungo acqua e mescolo, grata di non dover fare altro, di non dover dire nulla, di non avere altra responsabilità se non quella della giusta densità della colla. Pochi minuti dopo sono entrati nella stanza 20 bambini e capii che loro ti guardano dritto negli occhi e se gli parli dritto al cuore hanno sete di ascoltarti. 
Non ho ancora smesso di parlargli. Tengo laboratori dal 2008 e ad ogni laboratorio propongo un percorso nuovo, cercando i modi per attivare il loro processo creativo, offrire l’ascolto e accogliere i loro linguaggi – i cento linguaggi dei bambini, come direbbe Loris Malaguzzi. 
Mio padre era un pittore, figlio di madre pittrice e padre pittore. Non abbiamo mai disegnato e dipinto insieme. Lui mi ha insegnato a guardare: diceva che amare la pittura è “vederla non solo nei dipinti ma ovunque, nelle strade, nei prati, nei posti belli e in quelli brutti, sui muri scrostati, nelle pietre rotte, nelle nuvole , nel mare, nelle pozzanghere e soprattutto nei pensieri, nel pensare sempre pittoricamente”. Era davvero così: case, finestre, porte, onde, colonne storte, luci che mutano nell’arco di una giornata, alberi, crepe, ombre, tutto era “vedere pittoricamente”… non solo gli infiniti musei visti insieme, che peraltro ho profondamente odiato fino alla prima media quando andammo a Venezia, a Palazzo Grassi, dove vidi il Violinista verde, Malevich, le avanguardie.
Insegno, mi siedo per terra insieme ai bambini, mi sporco insieme a loro, gli mostro come si può fare, per esempio, una ciotola, cerco di inventare i passaggi per rendere semplice ciò che è difficile. Sopratutto mi stupisco per ogni traccia, per ogni accostamento, per ogni forma: “vedo pittoricamente” ogni loro gesto. 
Ho chiamato i miei laboratori “il viaggio del segno” e sono prima di tutto una scuola anche per me. Mi commuovo per lo stupore che loro provano nella scoperta di un materiale, e di se stessi nell’usarlo. 
Mio nonno era Felice Casorati. Vivo con un senso di immensità la sua arte. 
Solo una volta, quasi per caso, trovo una rivista e, sopra, la riproduzione di un suo quadro straordinario, “l’attesa”. Vengo trascinata dal desiderio di liberarmi di quest’immensità e lo ritaglio, lo faccio mio, come se stessi masticando e digerendo con le forbici. Poi, quelle tazze le applico su uno stendino di fili d’argento, come fossero panni stesi, resi quotidiani, vicini. Guardo quello che ho fatto e penso, ridendo fra me e me tantissimo: “ho steso il nonno!!!”. 
Ho 43 anni e ho esposto per la prima volta i miei lavori nel 2019, in un luogo che un tempo fu una fabbrica di cioccolato. 
Ho collaborato intensamente, per anni, con il gruppo A seconda di, con cui abbiamo creato performance interattive site specific ovunque: ora io mi chiedo quale sia davvero il senso di un’opera solo guardata, esposta, sono troppo abituata a pensare al modo con cui creare interazione con il pubblico. 
Non ho la risposta, ma cito, in conclusione, alcune parole che ho sempre amato moltissimo: “Essere percepiti. Noi siamo fenomeni offerti alla vista. Essere è in primo luogo essere visibili. Il lasciarci passivamente vedere apre una possibilità di benedizione. (…) Non c’è niente di ovvio in una faccia e niente di semplice in una superficie.” (Hillman)